Il 17 giugno del 2003, su invito della Commissione Affari Internazionali della Camera dei Rappresentanti degli Stati Uniti, mi recai a Washington per testimoniare sul tema “The future of Transatlantic Relations: a view from Europe”. Con me c’erano il futuro ministro degli Esteri polacco Radek Sikorski, un collega francese, uno studioso tedesco e il nostro compito era tosto, presentare strategie e valori europei ad un’America che aveva alle spalle l’invasione dell’Iraq, con l’Atlantico mai così ostile. In Francia devastavano i McDonald’s in odio al presidente George W. Bush, considerato un criminale di guerra, in Italia, in primavera, i balconi di ogni casa s’erano decorati con la bandiera della pace, destra e sinistra europee unite, dal francese Chirac ai tardi intellettuali marxisti, contro gli “yankee guerrafondai”. In America plotoni di estremisti svuotavano nelle fogne bottiglie di vino bianco Made in France, mi auguro scadente, e le “French fries”, le patatine fritte, venivano ribattezzate nei menu della buvette Camera “Liberty fries”, record di ridicolo politico del nuovo secolo ancor giovane.
Si entrava in quelle stanze foderate di ebano, tra statue di marmo di eroi, ritratti in olio di imprese storiche, volumi rilegati in cuoio marocchino rosso con pagine inneggianti alla Legge e alla Libertà, con senso di reverenza e rispetto. Nella Commissione sedeva un deputato precocemente canuto, Mike Pence, dell’Indiana, oggi vicepresidente di Donald Trump ancora per una dozzina di giorni, e con lui la Maxine Waters, democratica dell’ala dura, espressioni delle due Americhe che si battevano, la destra persuasa di portare la libertà in Medio Oriente, la sinistra disposta alle antiche politiche di negoziato.
Quel che provai a dire allora è rimasto nella Gazzetta Ufficiale Usa, insieme all’emozione di esser chiamato dal mio paese di adozione a dare una mano nelle intese con il vecchio continente dei miei antenati. Ma la notte dell’Epifania, quando, come milioni di cittadini, ho visto le orde dei terroristi trumpiani devastare quelle aule neoclassiche, insozzare gli uffici che dovrebbero, per dettato costituzionale, governare e legiferare nel paese, i documenti strappati in terra, i selfie oltraggiosi con i cappellucci Make America Great Again calcati in testa agli eroi del passato, mi si è stretto il cuore: dove sei finita, cara, vecchia, saggia America?
Quei teppisti li conosco bene, li seguo da quando il direttore geniale Ugo Stille mi spedì per il Corriere della Sera a fare inchiesta sul Ku Klux Klan che provava a rinascere su David Duke, il razzista che decideva di infiltrarsi nel partito repubblicano. Non sintomo di un’ “America Profonda”, il cui disagio sociale titilla solo gli ingenui e i parrucconi commentatori europei (tra i manifestanti, per esempio, il rampollo di un alto magistrato di Brooklyn, altro che poveri…), ma violenta avanguardia politica di un movimento che ha radici antiche. Il partito Know Nothing, non voglio saperne nulla delle vostre critiche era il curioso nome, a metà del XIX secolo, elesse oltre 100 deputati, otto governatori e i parlamenti locali dalla California al Massachusetts e la sua piattaforma scalderebbe la base trumpiana e i manipoli di invasori del Congresso. Deportare vagabondi, criminali e mendicanti se emigranti; 21 anni di attesa obbligatoria prima della concessione della cittadinanza ai nuovi arrivati; obbligo di mandare a memoria la Bibbia in tutte le scuole; cacciata dei cattolici da ogni carica pubblica, ecco il manifesto dei Know Nothing. Bianchi, protestanti, maschi, individualisti, senza tasse e governo con tutto in mano alla libera impresa come gli occupanti trumpiani. Il padre del presidente Kennedy, Joseph fondatore della dinastia, e il primo trasvolatore atlantico Charles Lindbergh, avevano simpatie naziste, come il lugubre bullo trumpiano che indossava la felpa “Camp Auschwitz”, teschio, tibie e scritta “Il lavoro vi rende liberi”, fiero di difendere l’orrore dei campi di concentramento.
“America First”, slogan della canaglia che scorrazzava in parlamento, turisti dell’odio politico a farsi i selfie, non è stato mica coniato da Trump, anzi. Nasce come movimento politico tra gli studenti dell’università di Yale, gli atenei Usa d’élite sono considerati in Europa culla della sinistra, ma in realtà quando Princeton si aprì per la prima volta alle donne, gli studenti maschi scioperarono contro, non a favore, della scelta e a Dartmouth la Dartmouth Review è, dal 1980, organo della destra intellettuale. Prima di Trump condivisero il nazionalismo protezionista di America First, allora innervato di antisemitismo, il padre di Topolino Walt Disney, il geniale architetto del Guggenheim Museum Frank Lloyd Wright, il poeta E.E. Cummings. L’asso dell’aria Lindbergh dettava la linea “Il maggior pericolo per gli Stati Uniti è il controllo e l’influenza che [gli ebrei] esercitano sull’industria cinematografica, la stampa, le radio, il governo”.
Guardavo la feccia sfilare con i telefonini puntati nelle sale della democrazia, ripensavo ai valletti timidi, alle guardie paciose agli ingressi, deferenti con tutti “Thank you Sir, Most obliged Madam”, incapaci di contenere la carica violenta dei sostenitori del presidente. Ora qualcuno ride, volete che facciano il colpo di stato con le corna da capo Sioux in testa, a torso nudo, scappando davanti a una spruzzata di spray al peperoncino? Sciocchezze, chi ricorda i cortei anni Settanta in Italia, la carica degli Autonomi contro il leader della Cgil Lama a Roma nel 1977, certi raid neofascisti finiti nel sangue, sa che in mezzo a tanti militanti pittoreschi, truci negli slogan e nel vestire, ma disarmati, si nascondevano i veri, micidiali, terroristi. La stessa dinamica è stata aizzata da Trump il giorno dell’Epifania, nel silenzio, complice ed ipocrita del suo sfinito partito, che in poche settimane ha perso la Casa Bianca, non riconquistato la Camera e, il 5 gennaio, ceduto anche il Senato, con la doppia débâcle, storica, in Georgia. Dagli scontri degli anni passati, le sparatorie, l’assedio al campus universitario di Charlottesville, con gli appelli ai Proud Boys e Wolverines delle milizie, “Stand back, stand by”, un passo indietro ma pronti!, il presidente non ha mai nascosto la sua ammirazione per i “Patrioti” della destra armata, che considera falange contro la sinistra.
Solo nella notte del 7 gennaio, tra le dimissioni dei suoi ultimi fedelissimi, ministri e collaboratori, gente che la Storia maltratterà, trumpiani all’incenso fino alla fine, critici improvvisati per salvare la ghirba, Trump condanna le violenze. Lo fa tardi, e male, temendo l’impeachment che i democratici ora potenti, la Speaker della Camera Pelosi e il senatore Schumer, gli promettono, o l’umiliante cacciata via XXV emendamento, il vicepresidente, separato in casa, Mike Pence che convoca il governo, o una commissione del Congresso, e certifica che il presidente non è più in grado di governare, dimettendolo a forza.
Non era un golpe la carica dell’Epifania, Trump non è Mussolini. Ma l’attacco è stata una manifestazione eversiva, con momenti di terrorismo, e la politica di Trump - attenti, per 4 anni, non solo nelle tragiche, isteriche, settimane seguite alla sconfitta contro Joe Biden - ha seminato antipolitica, autoritarismo, conflitto di interesse, odio, delegittimando le istituzioni democratiche. L’America, ve l’ho scritto a più riprese, ha tenuto botta contro la crociata cupa da Macbeth di Trump, battendolo alle urne con forza, alla Casa Bianca e al Congresso, respingendone in tribunale le farlocche accuse di frode elettorale, contenendo la violenza che ha scatenato il 6 gennaio contro la capitale del paese.
Biden e la sua vice Kamala Harris continueranno a proporre unità e riconciliazione, ma la metà dei repubblicani condivide il progetto di trasformare il parlamento, “aula sorda e grigia”, in un “bivacco di manipoli” con la tinta da guerra sulle gote, e i mitra M 16 in spalla. La maggioranza degli elettori di Trump pensa, secondo un sondaggio YouGov, che Biden sia un usurpatore e la metà approva il blitz al Parlamento, l’unità nazionale resta dunque ardua.
I dittatori e gli uomini forti del pianeta, Putin, Xi Jinping, Erdogan, Kim Jongun, gli ayatollah, Assad, se la ridono, chi mai più predicherà contro loro se sugli scranni dei senatori siedono protervi neonazisti? È finita dunque per l’America? Le sale dove, emozionato, provai a cementare l’intesa atlantica tra le democrazie in un momento duro di diaspora, sapranno riscattarsi dall’umiliazione inflitta dai trumpiani?
Penso al grande artista cinese dissidente Ai Weiwei, che una volta mi disse “Come posso mai predicare la democrazia in Cina se i paesi democratici eleggono leader come Trump e Johnson, scelgono Brexit e i populisti europei? Mi ridono dietro!”. Vero, eppure al grande Maestro Ai, ai tanti scettici e delusi che sono scoraggiati e amareggiati, direi di non abbattersi. La grazia con cui la maggioranza di 81.283.485 americani ha bocciato il trumpismo, il rigore con cui i magistrati, spesso repubblicani, hanno respinto i ricorsi di Trump, la maestà con cui le istituzioni si sono raccolte, dopo le barricate a Capitol Hill, a convalidare lesti l’elezione di Biden, la solerzia civile con cui migliaia di impiegati hanno contato, e ricontato, i suffragi in magazzini mal areati, a rischio Covid, cambiano il quadro, a lungo. Vero, la battaglia sulla disuguaglianza economica sarà aspra, vero, lo scontro sul razzismo si snoderà ancora lungo una generazione, vero, il divario tra i partiti resta scosceso.
Ma, osservando la tenacia con cui il vecchio Joe Biden si mette all’opera, la forza con cui i media di qualità hanno difeso la democrazia il 6 gennaio, le non poche voci repubblicane levatesi finalmente contro Trump, su tutti il senatore Mitt Romney, il solo a votare per l’impeachment sul caso Russiagate con coraggio, viene in mente il vecchio ritornello dei monatti durante la pandemia della peste, nella Milano del Manzoni: Andate, andate, poveri untorelli delle milizie trumpiane, con le vostra corna, mitra e ordigni esplosivi casalinghi, andate, andate, non sarete voi che spiantate l’America…